Articoli di Giovanni Papini

1955


in "Schegge":
I tesori del mare
Pubblicato in: Il nuovo Corriere della Sera, anno LXXX, fasc. 139, p. 3
Data: 12 giugno 1955


pag. 3




   Spiaggia solitaria di mare deserto. Una spiaggia lunga, senza fina, silenziosa, bigiamente malinconica. E' una larga fascia di alghe morte, tritate, tra il giallo slavato e il verde annacquato, un po' secche e un po' umide, che mandano un confuso odore di salmastro e di medicinali svaporati.
   Al di là della strada che costeggia la spiaggia, si stendono dei prati di terra avara e stizzosa, dove cresce un'erba rada e dura, fatta ancora più tetra da qualche fiore di asfodelo, il pallido fiore dei morti. Dietro i prati vi sono vasti campi di garofani fioriti: uno tutto bianco e un altro, più grande, tutto rosa ma d'un rosa provinciale e mercantile, quasi odioso. In fondo all'orizzonte, sul cielo cenerigno, una fila di montagne pelate, cretacee, con dei rognosi rimasugli delle antiche selve presso le cime.
   Eran giorni di primavera ma d'una primavera aggrondata e lacrimosa, che pareva volesse fare scontare gli assolati anticipi dell'impaziente febbraio.
   Nonostante le baruffe del vento e le sciacquate della pioggia, andavo tutte le mattine sulla spiaggia e mi facevo un giaciglio a mo' di conca tra le alghe smorte, quasi sempre vicino a una torre di guardia contro i corsari barbareschi, una torre vecchia, mezzo diroccata alla sommità, dove alloggiavano, a quel che mi parve, nottambuli alati. Portavo con me un libro ma non leggevo quasi mai perchè volevo tener d'occhio il mare, perchè aspettavo qualcosa che doveva giungermi dal mare. In quel tempo ghiribizzavo che il verso più bello della Gerusalemme Liberata fosse questo:
«L'odorata Maremma e il ricco mare»
   Il mare che mi stava dinanzi non ispirava nessuna idea di ricchezza: le sue acque frementi ma non rabbiose, incrostate ma senza orlature di spuma, di un colore tra il verde marcio e il bistro lucido erano noiose e annoiate al pari delle nuvole che le ombravano: a momenti avevano l'aria sinistra d'un lago sotterraneo. Ma io sorvegliavo tutti i giorni quel desolato mare: spiavo con avida curiosità tutto ciò che il mare, nel suo stanco respiro, deponeva sulla bàttima, con la speranza assurda quanto caparbia che, una volta o l'altra sarebbe giunto un segno prodigioso, un relitto misterioso, un impreveduto dono raro e strano. Purtroppo non arrivavano che ramicelli tronchi di alghe, valve di conchiglie d'un violastro senza splendore, frammenti di legno abbruciacchiato, scaglie di marmo vetroso arrotondate dalle onde, cadaveri flaccidi e disgustosi di meduse. Ma io, a dispetto delle delusioni quotidiane, mi ostinavo a sperare.
   Ridevo fra me e me di quella fantasia bambinesca; l'intelligenza si accorgeva benissimo che si trattava di una superstizione di origine letteraria ma io ero sicuro lo stesso che il mare, il «ricco mare», avrebbe finito col i portarmi il suo dono. La fede crea il miracolo ed avvenne così anche per il mio.
   Una mattina che andavo adagio lungo la spiaggia per raggiungere il mio covo presso la torre, vidi dinanzi a me proprio sull'ultimo orlo dell'acqua, qualcosa di insolito e di scuro. Mi avvicinai e presi in mano l'oggetto: era una cassettina di legno ricoperta di pelle. La pelle era bagnata, corrosa dalla salsedine e in più punti mancava. La cassetta era poco più grande di un libro ed era chiusa a chiave. La scossi e sentii che non era vuota. Quel tenue, sordo rumore mi commosse: forse era giunto il dono che da tanto tempo attendevo. Andai a grandi passi fino al mio giaciglio per aprire in pace la cassettina recata quella notte dal mare. Il legno era vecchio e fradicio sicchè potei aprirla facilmente con l'aiuto di un temperino. In un battibaleno feci l'inventario del tesoro. Miserrimo tesoro, da far dubitare della favolosa ricchezza del mare: una moneta d'argento da cinque lire, dove riconobbi, benchè annerito, il profilo del re Vittorio Emanuele II; una medaglia di bronzo con l'immagine della Madonna che si premeva con le mani il petto aperto; tre cauri, cioè di quelle conchiglie che nelle isole Molucche servono come monete: una cornicina di metallo che racchiudeva, sotto vetro, la fotografia di due facce, un uomo e una donna, ma talmente scolorita che si distinguevano appena le fattezze: finalmente, nel fondo, un foglio da lettere di quattro facciate coperte di minuta scrittura. Tentai subito, spinto dalla mia eterna mania di uomo di penna, di leggere lo scritto ma purtroppo la carta si era impregnata d'umidità e l'inchiostro si era spanto in modo che non era possibile decifrare i caratteri. Riuscii soltanto a indovinare qualche parola qua e là ma non bastarti per dare un senso. Potei capire che non sí trattava di una lettera ma di una poesia d'amore e la firma era irrimediabilmcnte illeggibile.
   Contemplavo quei miseri, meschini oggetti con una punta di malinconia tra dispettosa e pietosa; il mare, vicino a me, mormoreggiava e si gonfiava più del solito, quasi volesse deridere il mio ridicolo disincanto. Una spera di sole fece brillare ad un tratto le rumoreggianti acque deserte ed ebbi all'improvviso, come in un lampo, la rivelazione.
   Quelle povere reliquie di nessun valore, rinchiuse in quella cassettina da un uomo che quasi certamente non era più tra i viventi, mi apparvero una meravigliosa sintesi della vita umana. La moneta significava la politica e la ricchezza, tanto spesso collegate insieme; la medaglia era il simbolo della religione, della maternità e del dolore: le conchiglie vuote simboleggiavano la natura e la morte; la fotografia dell'ignota coppia raffigurava il genere umano; ed infine quell'umile carta inchiostrata rappresentava le due supreme consolazioni dell'uomo: l'amore e la poesia. Il mare, il «ricco mare» non mi offriva il tesoro da me fanciullescamente sognato ma forse mi consegnava un dono che, per l'anima, poteva valere assai di più.


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